L’estate del 2012 è stata tremendamente calda, la ricordate? È stata quella in cui hanno iniziato a dare nomi tutt’altro che rassicuranti alle ondate di fuoco che si susseguivano…ha aperto la stagione Scipione L’Africano e ha chiuso Circe…Io il caldo non lo sopporto, figurarsi dover affrontare l’ultimo trimestre di gravidanza nell’estate del 2012. Così nei dialoghi infiniti che facevo con te nella mia pancia ti avevo fatto promettere che non saresti mai andata oltre il termine.

Abitavamo nella casa in campagna a Ostra dalla quale ci vede la torre della piazza e proprio tre giorni prima del tuo arrivo i tetti di tutto il paese si sono riempiti di cicogne, un evento magico, che mai era accaduto e che ancora non si è mai ripetuto. Ok mi sono detta, manca poco. Che belle che sono…

La notte del 26 Agosto, all’incirca alle 3.00 del mattino, il mio cagnone undicenne Aki, che avevo sentito abbaiare in vita sua al massimo una decina di volte, fa un ululato profondo, lungo e intenso. Mi vengono i brividi ma sono subito distratta da una profonda, lunga e intensa contrazione. Eccoci. Inizia la nostra danza. Puntualissima, 40 settimane precise, come ti avevo chiesto.

È chiaro da subito che non sarà una passeggiata ma che sarà pieno di magia. Lascio riposare ancora il tuo babbo, gli servirà e mi godo l’inizio, il nostro inizio, io e te, nella notte che ci ascoltiamo emozionate. Tu così decisa, così sicura. Io che sprofondo in uno stato di trance quasi per ascoltarti e ricevere tutta la tua forza. Danziamo dolcemente per ore, poi arriva il momento di dire a tuo padre che stai arrivando. Lui impazzisce momentaneamente, la gioia si trasforma in bisogno di manualità, si precipita a montare cose che non ti serviranno mai nella tua cameretta, prepara la colazione, prepara la macchina, sistema i cani mentre io e te ci godiamo il sollievo di una doccia calda sulla mia schiena…

Alle 8.00 si rompono le acque e le onde si fanno più alte. Partiamo. Alle 8.30 il paese è già sveglio, ci vedono partire e già iniziano i festeggiamenti, il tam tam di telefonate e in un attimo tutti sanno del tuo arrivo imminente…

La strada in macchina per arrivare all’ospedale di Jesi è uno dei momenti più divertenti della tua nascita…una buca dietro l’altra minaccio di denunciare i comuni di Belvedere, San Marcello e Jesi durante tutto il tragitto, con tuo padre che cerca di evitare l’inevitabile e pause in cui ridiamo a crepapelle per poi incazzarmi di nuovo perché ridere mi tira la pancia…insomma una scena alla Sandra e Raimondo, che potrebbe essere in una qualunque commedia italiana. Ma quello che è davvero difficile raccontare è l’intesa, la gioia, l’emozione e l’amore che dovrebbe esserci sempre tra due genitori che stanno per vedere finalmente il loro primo figlio. La maternità che mi ha sempre spaventata, con lui accanto non mi fa più paura. È la roccia contro cui posso infrangermi mille e mille volte. Lui sta.

Quando arriviamo l’ospedale ha un sapore di vacanza,  tanti sono in ferie e il via vai che avevo visto nelle due volte precedenti in cui avevo visitato il reparto è sparito. Ci sistemano in sala travaglio ed io entro in un mondo tutto nostro guidata  dal dolore. Dentro quel vortice ci siamo solo io e te, è come se vivessimo in un’altro mondo. Ogni tanto qualcosa ci riporta alla realtà, gli occhioni azzurri di un’ostetrica giovanissima che mi chiede se ho bisogno di un pò di sollievo con la doccia, le mani forti di tuo padre che mi tengono salda, ferma al centro, nell’occhio del ciclone ma senza essere spazzata via, l’acqua calda sulla mia schiena che mi fa riprendere fiato, camminare no, non riesco, voglio stare accovacciata. Siamo io e te, tutto il mondo è fuori. Da tempo non riesco a parlare, alle pochissime domande che mi fanno rispondo con un cenno della testa. Non percepisco più il tempo, non ho idea di che ore siano ma deve essere cambiato il turno perché è arrivata una nuova ostetrica. Le sorrido perché penso che sia appena tornata dalle vacanze, ha la testa piena di treccine piccole e colorate che sanno di Africa. Le sorrido ma ancora non riesco a parlare. Chiudo gli occhi di nuovo.

Io non lo sapevo in quel momento, tuo padre è stato bravissimo a tenere fuori da quella stanza tutto il resto, ma in sala d’aspetto c’è il più grande schieramento di parenti mai visto…e sono lì dalle 10, rimarranno inchiodati davanti alla porta delle sale parto per ore e ore, filmandosi con la telecamera di zio Attilio, facendo balletti (ora conosci le tue zie) e cantando canzoni Disney, pregando, leggendo…insomma ognuno cercava di sopportare quell’attesa interminabile come poteva. Babbo Ale ogni tanto usciva, mi diceva che andava a mangiare ma oltre a questo cercava di contenere l’ansia raccontando che non succedeva un granché da fuori ma che io e te cavalcavamo onde altissime e no, non volevamo nessun aiuto.

Nonna Anna, la mamma del tuo babbo, mi aveva detto che quando avessi iniziato a non vedere più il soffitto sarei stata vicina alla fine, così ogni tanto aprivo gli occhi ma il soffitto continuavo sempre a vederlo perfettamente. Nella stanza accanto un’altra donna sta mettendo al mondo il suo cucciolo con il ruggito di una leonessa, così chiedo preoccupata alla mia ostetrica : “ma…a me quanto manca per arrivare ad urlare così?”. Lei ride, una risata fragorosa, con la testa buttata indietro, di quelle risate contagiose che non puoi non unirti, una risata spensierata che mi fa capire che tutto sta andando bene. “Tu non griderai così, sono sicura!”.  Ma quanto manca ancora nessuno me lo dice, nessuno può saperlo. Come un tarlo minuscolo e invisibile si insinua lo sconforto, sono ore che apparentemente non succede nulla e inizio a dubitare della mia resistenza. “Non ce la faccio più”, dico. L’ostetrica mi chiede se voglio l’epidurale e un fuoco divampa dentro di me. NO, ce la facciamo. Torno in ascolto.

Passa ancora tempo, il soffitto è sempre lì ma il momento buio e paura sento che è passato. Ale è sempre lì, gli ho stritolato le mani senza mai dirgli una parola. La mia immobilità delle ultime ore è servita, ho recuperato le forze.

Ale deve aver confabulato con il personale sanitario perche qualcuna apre la finestra e mi invita a guardare fuori. Piove!! La prima pioggia tanto attesa! Mi sembra una benedizione scesa solo per noi. Ostetriche e ginecologa del turno precedente sono tutte schierate accanto alla finestra, questa nascita la vogliamo proprio vedere, dicono.

Non andiamo in sala parto, rimaniamo qui, in questa stanza che per un intero giorno è stata tutto il nostro mondo. Manuela, l’ostetrica con le treccine, fa sedere Ale su una sedia dietro di me che sono per terra, salda sui miei piedi, come una rana che sta per saltare dalla parte opposta dello stagno. Non credo di aver mai sentito i miei piedi così saldi in vita mia, nessuno li sposterà. Il mio corpo ha scelto il posto e il modo. Io l’ho solo ascoltato. Sento la tua testolina che ruota, lentamente.  L’ostetrica mette un telo a terra e mi da uno specchio. Io mi sento perfettamente a mio agio, come se non avessi fatto altro nella vita. Ma devo fare un’ultima cosa prima. Ho fame e chiedo all’ostetrica la cioccolata che avevo portato. Mangio cioccolata, spingo durante la contrazione accovacciandosi sui miei piedi piantati a terra e nelle pause Ale mi solleva con le sue braccia sotto le mie ascelle, e mi mette seduta sulle sue gambe. Ho davanti quattro donne che non so in che momento hanno iniziato a cantare. Manuela è al nostro fianco ma non ci tocca. Fuori la pioggia continua a scendere dritta e silenziosa su un mondo assetato. Tutto è perfetto. Tutto parla di te amore mio, pioggia che ristora, forza tellurica, con confini chiari e inattaccabili. Persino la cioccolata che sto mangiando e che offro all’ostetrica parla di te. L’ostetrica dice: ” stai partorendo! come riesci a mangiare e bere?” lasciandosi andare nella sua risata che sa d’estate. Tu, che sei la mia forza, tu che non mi hai mai fatto sentire paura in gravidanza, tu che sai sempre dove andare e anche in mezzo al bosco di notte trovi sempre la tua strada.

Sei nata alle 18.15. Ho visto la tua testa piena di capelli neri uscire da me e ho allungato le mie mani stupita e incredula di poterti accarezzare. Sei scivolata fuori come un pesce e ti ho afferrato e portata al mio petto con forza. Così io e tuo padre abbiamo visto i tuoi occhi neri e lucenti brillare, pieni di vita, seri a tal punto che le mie prime parole sono state:” Frida, ricordati che sei una bambina ora!” perché il tuo sguardo era quello di un grande capo tribù, saggio e con una visione lontana. Quello sguardo mi ha lanciato un gancio che ha arpionato il mio cuore per sempre e senza troppe smancerie o cerimonie.

Non piangi ma nessuno era allarma, così mi siedo a terra e le forti braccia di tuo padre ci abbracciano e ancora lo fanno. Non cercherò di descrivere quello che si prova perché nessuno mai potrebbe riuscirci. Ma tu, mia piccola Frida ci hai fatto nascere quel giorno come persone nuove, un padre e una madre.

Non hai mai distolto lo sguardo e quel gancio ancora lo sento fisicamente lì quando ti guardo. Quest’anno compirai 8 anni e la storia della tua nascita l’hai voluta ascoltare tante volte. Sembra una favola ma è realtà. E questo è solo l’inizio…

La tua mamma Maki