Avevo chiaro in mente che la nostra esperienza di nascita doveva essere come volevamo noi e non come dicevano loro. Loro, intendo tutti gli altri, ma soprattutto gli ospedali e i loro protocolli. Con l’avanzare della gravidanza il pensiero di come veniva gestito il parto in ospedale mi faceva venire l’ansia e un senso di soffocamento. Ma una parte di me non era pronta per un parto in casa. Troppo costoso, e se poi succede qualcosa, e come si fa, come non si fa ecc…

Avevo l’opportunità di un buon compromesso, la casa del parto di Roma, in cui il parto era gestito da sole ostetriche come un parto a domicilio, con la possibilità di partorire in acqua e tornare a casa con Rachele tra le braccia subito. Accedere alla casa del parto come partoriente non era una cosa semplice, le ostetriche erano molto selettive e mi sembrava quasi che dovessi superare i test per diventare astronauta alla NASA, ma ce la feci e superai brillantemente tamponi, ecografie e analisi del sangue. La mia reperibilità sarebbe partita dalle 38 settimane di gravidanza. Io non ero ancora a 37. E avevo la forte sensazione, già dall’inizio della gravidanza che non sarei mai arrivata a 40 settimane. Il travaglio infatti partì a 38+2. Contattai la mia ostetrica per accompagnarmi nel travaglio e alla casa del parto. Lei si occupò di avvisare la casa del parto del nostro arrivo. Era notte fonda. Sembrava fosse tutto in ordine, ma quando arrivammo alla casa del parto, adiacente a uno dei principali ospedali di Roma, ci ritrovammo di fronte alla struttura chiusa, porte sigillate e tutte le luci spente. Unica persona presente, l’ostetrica del blocco parto dell’ospedale che ci aveva risposto al telefono e che aveva affermato che fosse tutto a posto.

Ora, io andai nel caos. In travaglio attivo, pronta per il mio parto in acqua, per poter andare avanti in quello che era il viaggio più intenso della mia vita, ero bloccata tra il parcheggio e una sala di aspetto, perché un’ostetrica di turno aveva tradito la mia fiducia, senza avvisare la collega reperibile per la casa del parto, dando per scontato che vabbé, io sarei rimasta lì e avrei partorito in ospedale. Assolutamente no, non metterete su di me o mia figlia un solo dito, questa era la sola cosa che potevo pensare, ma non mi veniva in mente nessuna soluzione. E intanto le contrazioni continuavano a ondate. La soluzione arrivò da mio marito. Torniamo a casa.

-Eh?

-Torniamo a casa.

Guardai l’ostetrica al mio fianco. -Si può fare?_

Lei chiamò nel cuore della notte una collega reperibile, che venne a casa nostra con la vasca gonfiabile per il parto. Salimmo. Io ero stremata. Andare e tornare dall’ospedale aveva comportato un’ora di viaggio in auto, che con le contrazioni in corso, non è esattamente il massimo della goduria.

Ma soprattutto ero incazzata nera. Mi sentivo tradita e umiliata. Mi avevano fatto esami su esami per assicurarsi che potessi partorire lì e poi quando sono loro a dover essere presenti, non ci sono.

Per molto tempo mi sono sentita in colpa per quella rabbia, che ha reso il continuo del travaglio faticoso, perché ha portato a un rallentamento e ad una rotazione di Rachele, che avrebbe reso più difficile per lei la nascita e più dolorosa per me l’espulsione. La mia voce non era più profonda e fluida, ma strozzata in gola e arrabbiata, sfiduciata.

Col tempo mi sono perdonata e ho compreso che quella rabbia, in realtà, mi salvo dalla paura, che avrebbe potuto essere paralizzante e dagli effetti molto più negativi.

Le ostetriche mi aiutarono a tornare in contatto con me stessa e con la mia bambina e trovando le parole giuste al momento giusto.

Mi fecero uscire dalla vasca e mettere stesa su un fianco per far sì che Rachele ritrovasse la posizione giusta per poter uscire. Ero stanca. Sudata. Per essere il 26 di settembre era caldissimo. Non capivo più se ero bagnata di acqua o di sudore. Non capivo se fosse ancora notte o giorno, perché gli scuri erano chiusi e questa cosa mi disturbava. Dovevo anche fare pipì, ma ogni volta che provavo a farla partiva la contrazione e l’onda di dolore mi impediva di svuotare la vescica.

Dopo un po’ una delle ostetriche mi ripeté che fare pipì mi avrebbe davvero aiutata, quindi, perché non ci alziamo e andiamo in bagno?

Nel momento in cui mi sedetti sul water, la pipì non arrivò, ma le contrazioni si fecero decise, molto intense, e molto….discendenti. In 3 contrazioni uscì la testa di Rachele, mentre stavo in bagno in piedi davanti al gabinetto con le ginocchia leggermente flesse. L’ostetrica mise davanti a me sul pavimento asciugamani e traversine e io tornai a mettermi carponi, la mia posizione preferita. E due spinte dopo Rachele era nata.  Ero esausta e colma di gioia. Stremata ed euforica. Ci rispostammo in camera e ci stendemmo insieme, nude, io coperta di sudore e lei di vernice caseosa. Mi colpì il suo profumo. L’avrei annusata per molto tempo, anzi, ancora lo faccio e sono passati 4 anni.

Ce l’avevamo fatta. Rachele si arrampicò sulla mia pancia e sul mio seno, per attaccarsi subito. Anche lei era molto stanca e presto si addormentò. Poco prima di partorire la placenta finalmente feci pipì. E anche quello fu un bel sollievo, considerato che avevo bevuto un litro e mezzo d’acqua durante la notte.

La placenta rimase attaccata a Rachele per alcune ore. Non eravamo preparati per una nascita Lotus,  come non lo eravamo fino in fondo per un parto in casa, eppure eccoci là. Quando le separammo ricordo che provai un dispiacere. La placenta di Rachele è stata donata alle piante e agli animali selvatici che vivevano intorno a casa nostra. E per la nascita di Rachele piantammo un arancio. Col senno di poi, avremmo potuto omaggiare meglio la sua placenta e tenerla più con noi, ma considerato il viaggio che è stato il nostro parto, la fatica, la tenacia con cui abbiamo combattuto per farci rispettare, credo che abbiamo fatto del nostro meglio, e questo nessuno può portarcelo via.